Le grandi guerre mondiali hanno sconvolto il mondo, spazzando via generazioni di uomini, donne e bambini, di militari e civili. Le devastazioni della guerra hanno colpito non solo il fronte, ma anche le retrovie: se nella prima guerra mondiale si temeva il collasso economico e sociale del “fronte interno”, durante il secondo conflitto le città sono state sconvolte dai raid sempre più violenti dei bombardieri, capaci di radere al suolo fabbriche, ospedali e perfino intere città.
Tuttavia, le conseguenze dei conflitti non si sono “limitate” ai danni materiali o alle vite umane perse; per decenni, i soldati e i civili hanno dovuto fare i conti con le terribili ferite lasciate dalla guerra.
Sono celebri i quadri dell’artista tedesco Otto Dix, capace di immortalare con cruda efficacia la condizione di marginalità e degrado dei reduci di guerra; le cicatrici e le mutilazioni subite avrebbero infatti condannato i reduci ad una vita di stenti e di fatica.
Benché le ferite fisiche siano quelle più evidenti e facilmente associate al dramma della guerra, esiste un’altra forma di sofferenza generata dall’esperienza, diretta o indiretta, di un conflitto: la “nevrosi di guerra”, oggi meglio conosciuta come PTSD, disturbo post-traumatico da stress.
I soldati tornati dal fronte erano profondamente cambiati, nella loro psiche e nella loro capacità di riprendere la vita civile; le esperienze intollerabili del fronte si traducevano in una serie di sintomi capaci di rendere insostenibile la vita quotidiana: l’irrompere incontrollabile di memorie e immagini legate ai combattimenti, gli attacchi di panico, i crolli depressivi, il costante stato di iper vigilanza e minaccia sono solo alcuni dei sintomi che attanagliavano i reduci.
Divenuti incapaci di lavorare, i reduci erano spesso allontanati dalle loro famiglie, terrorizzate dai loro sintomi e prive delle risorse necessarie per essere loro d’aiuto.
Tra le varie, una condizione inquietante era il cosiddetto “shell shock”, termine coniato nel 1915 per indicare i militari traumatizzati dall’esplosione delle granate: i soldati, assolutamente incapaci di reagire e di elaborare emotivamente l’impatto delle distruzioni, della violenza e della morte, sviluppavano rapidamente una costellazione di sintomi di natura ansiosa, depressiva e di iper vigilanza. In particolare, il loro volto era spesso inespressivo, oppure segnato da un ghigno nervoso e il loro corpo come paralizzato, bloccato in uno spasmo muscolare.
Tornati dal fronte della grande guerra, molti dei reduci furono rinchiusi nei manicomi, le uniche strutture all’epoca dedicate al “trattamento” dei disturbi mentali.
La Psicoanalisi ha cercato di affrontare l’emergere, violento, rapido e dirompente dei caso di “nevrosi di guerra”: lo stesso Freud aveva osservato come l’emergere degli incubi e dei flashback nei reduci costituisse un fenomeno clinico che rendeva necessario rivedere la teoria del sogno come “appagamento mascherato di desiderio”.
Molti psicoanalisti nel corso del Novecento hanno dedicato le loro energie alla cura dei reduci colpiti dalla “nevrosi di guerra”; tra questi occupa un posto di eccezione Wilfred Bion. Tra le figure di spicco della Psicoanalisi inglese, Bion ha lavorato a lungo con i reduci della seconda guerra mondiale. Anche lui reduce, una volta tornato dalla Grande Guerra, ricordava:
“Avevo 24 anni; inadatto alla guerra, inadatto alla pace, e troppo vecchio per cambiare. Era una cosa davvero terrificante”.
Come giovane medico e terapeuta, Bion lavorò a lungo con i reduci attraverso lo strumento del gruppo, sviluppando una teoria originale sul funzionamento psichico della mente individuale e dei gruppi.
Possiamo dire che l’esperienza del trauma si traduce nello sviluppo di una nevrosi (oggi detta anche PTSD) perché determina il “collasso psichico” del soggetto, incapace di elaborare esperienze devastanti.
Il trauma è l’effetto dell’esposizione ad un evento che il soggetto non riesce a fronteggiare, finendo per essere travolto e annichilito. Lo sviluppo dei sintomi riflette questo collasso, rendendo il reduce costantemente vittima delle memorie che si impongono alla sua mente in modo vivido e reale. Non si tratta quindi di ricordi, ma dell’esperienza di essere di nuovo precipitato nel conflitto, in una ripetizione mortale dello stesso evento.
Per Freud:
“Chiamiamo ‘traumatici’ quegli eccitamenti che provengono dall’esterno e sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo. Penso che il concetto di trauma implichi questa idea di una breccia inferta nella barriera protettiva che di norma respinge efficacemente gli stimoli dannosi”.
Per approfondire:
-Sigmund Freud - “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte” (1915);
-Wilfred Bion - “Esperienze nei gruppi ed altri saggi” (1971);
-Franco Fornari – “Psicoanalisi della guerra” (1966).
la ripetizione della nevrosi di guerra si distingue dal classico concetto di “ripetizione” coniato da Freud. Se la ripetizione è uno dei fondamenti della vita psichica, perché riflette le vie che la pulsione ha trovato, nel suo rapporto con la Civiltà, per scaricarsi e ridurre la tensione psichica, la ripetizione traumatica si caratterizza per una dimensione mortifera priva di godimento.
La ripetizione del trauma rifletterebbe allora una lacerazione del “tessuto” della psiche, capace di far emergere contenuti traumatici senza la mediazione della mente come apparato capace di “elaborare” e “digerire psichicamente” gli eventi accaduti.
Per questo, la ripetizione traumatica non è inconscia, bensì invadente, incontrollabile e pervasiva, tanto da rendere,a ancora una volta, il soggetto inerme davanti a quanto gli accade.
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