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INSEGNARE LA PSICOANALISI?

In un articolo del 1918, Sigmund Freud si chiede: “bisogna insegnare la psicoanalisi nelle università?”


Alla sua epoca non esistevano ancora corsi o cattedre dedicate all’insegnamento delle sue scoperte (la prima sarebbe nata di lì a poco, a Budapest, assegnata a Ferenczi); per questo, l’apprendimento della teoria e della pratica avveniva “fuori” dalle Università, attraverso l’analisi personale e le supervisioni della propria pratica clinica coi pazienti.


Certo, Freud aveva già tenuto diverse lezioni e conferenze, a Vienna, in Europa e negli Stati Uniti, spiegando la sua tecnica e le scoperte della psicoanalisi...


Ora Freud si chiede: “e se le Università riconoscessero il valore della psicoanalisi? Che posto dovrebbe occupare? Come insegnarla?”

Per il giovane studente di medicina, sostiene Freud, sarebbe utile conoscere la psicoanalisi, perché gli offrirebbe degli strumenti per interpretare molti fenomeni clinici, legati alla profonda connessione tra psiche e corpo.

Inoltre, sottolinea Freud, il metodo analitico può essere applicato con felici risultati anche a molti campi del sapere, come l’arte, la letteratura, la filosofia e la religione.



Tuttavia, osserva Freud, la trasmissione della psicoanalisi in università avverrebbe, inevitabilmente, come in qualsiasi altro campo: un sapere trasmesso in modo rigido, dall’alto in basso, dai professori agli studenti. Un “oggetto” di conoscenza come tanti altri.

Freud infatti (e molti altri dopo di lui) ha dato corpo ad una teoria, un sapere che si può conoscere, studiare e approfondire: la teoria di Freud è quindi una “psicologia”, un “logos” della “psiche”. Ma il “sapere” proprio della psicoanalisi non si trova nei libri. La dimensione sovversiva della psicoanalisi non ha a che fare con le conoscenze teoriche.


Conclude Freud: “Dopo tutto, l'istruzione universitaria non fornisce allo studente di medicina una preparazione tale da renderlo un abile chirurgo; e nessuno che scelga la chirurgia come professione può fare a meno di un ulteriore addestramento consistente in parecchi anni di lavoro nel reparto chirurgico di un ospedale.”


L’osservazione di Freud coglie un punto fondamentale della formazione analitica: c’è qualcosa di “non trasmissibile”, che l’università non può insegnare. Un nocciolo duro resiste ad ogni forma di trascrizione scritta, di codifica e di “riduzione” ad oggetto di studio. Anzi, la codifica del sapere analitico disinnesca il potenziale sovversivo della psicoanalisi.

Si tratta di un “reale” che va al di là della mera pratica intesa come “affinamento di abilità”, come nel caso del chirurgo in formazione descritto da Freud.


Il “reale” in gioco nella formazione psicoanalitica ha a che fare con il lavoro con il proprio inconscio nell’analisi personale. Questo lavoro apre ad un sapere inedito e sovversivo, capace di un profondo impatto sulla vita dell’analizzante. Il sapere sull’inconscio e sul proprio desiderio è sovversivo perché impone al soggetto di prendere posizione rispetto ad esso: cediamo sul nostro desiderio o ce ne facciamo carico?


Abbiamo poi il desiderio dell’analista.

Ogni analista nella propria pratica, attraverso i propri atti, testimonia di questo desiderio particolare, frutto della propria analisi (e non solo della propria esperienza); Lacan definisce il desiderio dell’analista come “il desiderio di far emergere la differenza assoluta” che abita il paziente.


Il sapere a cui punta l’analista è di “pasta diversa” da quello che è possibile incontrare nell’università: il sapere inconscio infatti non si trova in qualche manuale, in una rivista tecnica, né lo si può apprendere ad una lezione o durante un convegno.


Come afferma Lacan:

“Se l'analista può meritare questo nome... non può essere che per questo: per il fatto di far emergere, di liberare, da quella difensiva una forma sempre più pura. Ed è questo il desiderio dello psicanalista nell'operazione. Condurre il paziente al suo fantasma originale, questo e non insegnargli qualcosa: è apprendere da lui come fare”.


L’analista non fa da esempio, non invita il paziente ad imitarlo, non gli dice “fai come me”; anzi, apprende da ogni analizzante, in modo sempre diverso, lo specifico e soggettivo “savoir-faire” del paziente. Il “savoir-faire” è la risposta che l’analizzante ha trovato al proprio sintomo. L’analizzante è chiamato a superare quello che crede di sapere, per fare posto all’inconscio, ad un sapere ancora non saputo, a fare i conti qualcosa di opaco che si mette di traverso nella sua vita.


L’analista allora opera non tramite un sapere di cui dispone a priori, ma a partire da quello che Izcovich chiama “savoir-fare”, un “saperci fare” con l’inconscio, con il proprio sintomo. È questo, sottolinea Lacan, “il fine dell’analisi”.


Per approfondire:

-Sigmund Freud – “Bisogna insegnare la psicoanalisi nelle università?”;

-Luis Izcovich – “Il savoir-faire dello psicoanalista”;

-Burno Bonoris – “Cosa fa uno psicoanalista?”.



Il rapporto con il sapere è centrale nella pratica e nella teoria della psicoanalisi: di quale sapere si tratta? Del sapere universale della scienza o del sapere particolare del soggetto?


La psicoanalisi propone di valorizzare anche il sapere particolare del soggetto come degno di nota e di considerazione: è in gioco un sapere unico, formulato dal soggetto e impossibile da cogliere senza la sua parola e la sua implicazione soggettiva.


Questa forma di sapere si contrappone al sapere dell’Università, uguale per tutti e basato su prove e dimostrazioni. Per questo Lacan, nell’ambito della sua “teoria dei discorsi” ha distinto il “discorso dell’Università” da quello dell’“analista”.


Il discorso dell’Università rifiuta la dimensione della soggettività, fondandosi sull’universalità del riconoscimento scientifico. Qualsiasi sia il produttore del sapere universitario, esso, in quanto tale, è realizzato con i medesimi criteri e per questo accettato dovunque regni il legame sociale della comunità scientifica.


Il discorso dell’analista invece concerne la sua pratica e la possibilità che il soggetto, spinto dal desiderio, possa dire qualcosa di più su di sé e sul proprio modo di godere e di legarsi all’Altro, producendo quindi un sapere nuovo che vale per sé, senza possibili generalizzazioni.

 
 
 

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